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mercoledì 23 ottobre 2019

Dalla Resistenza alla Costituzione: legittimazione di un progetto di libertà e uguaglianza.

Pubblico qui di seguito, da Hyperpolis.it, la “postfazione” 
di Paolo Solimeno 
al volume di Renzo Forni e Francesca Giovannini 
“Antifascisti e Partigiani di Impruneta – storie, testimonianze e documenti inediti”, Florence Art Edizioni, 
presentato il 24.10.2019 alle 17.30 nella Sala del Gonfalone della Regione Toscana, via Cavour 4, a Firenze.
 

La rifondazione dello stato e della società dopo la caduta della dittatura fascista e la fine della II Guerra Mondiale è avvenuta in un clima al contempo drammatico e felice: sulle macerie della guerra si percepiva l’obbligo morale di distinguersi dal passato di repressione e violenza del regime e la libertà di farlo con la guida di un’umanità nuova, emersa durante gli anni della Resistenza, unita da un nemico comune che non era solo un esercito invasore, ma l’esperienza di una sudditanza.
Alla formale caduta del fascismo decretata dal voto al Gran Consiglio del 25 luglio 1943 – cui seguirà la nomina immediata da parte del Re del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo che si affretta a dichiarare che “la guerra continua” – segue l’armistizio dell’8 settembre che finalmente dichiara cessate le ostilità contro gli Alleati.
Lo Stato si ritrae, emerge una moltitudine che sarà presto capace di acquistare una legittimità formale e morale, ma intanto alcuni giuristi dubitano: Santi Romano, fra i massimi giuristi del tempo, nel 1944 accusa i partiti antifascisti di creare instabilità, uccidere e perseguitare gli avversari, di non avere infine legittimità, in quanto responsabili del gesto rivoluzionario, nel dettare norme giuridiche1


Intanto altri scriveva, dopo aver passato in rassegna le forze della resistenza nell’Europa occupata dai nazisti, “che cosa vogliono questi uomini? Per che cosa combattono? Vogliono tutto ciò che il fascismo e il nazismo non sono. Libertà, giustizia, pace, fraternità, patria, ecco le parole che risuonano in fondo a tutti i cuori dei combattenti”2

Si trova infatti nella “scelta”3 dei partigiani che sono per la democrazia e contro il nascente fascismo, in qualche caso sin dal Biennio rosso del 1919-21 e della reazione alle prime violenze fasciste, ma soprattutto nella scelta di quanti prendono le armi l’estate del ’43 dopo la caduta del fascismo (e la scelta cruciale sta qui nel rifiutare il reclutamento della Repubblica Sociale di Salò) il gesto collettivo che fonda un nuovo ordine morale e costituzionale.

Tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 il re a Brindisi e il redivivo fascismo della Repubblica di Salò esercitano una sovranità solo formale, di fatto domina a Nord l’occupazione nazista, a Sud l’esercito degli Alleati. Anche i Comitati di Liberazione Nazionale (nati già il 9 settembre ’43) sembrano raccogliere una legittimazione dal basso, dalle vicende individuali della resistenza di singoli contro il nazifascismo, e fra i Comitati di Liberazione è da sottolineare l’indipendenza e autonomia del Comitato Toscano che, oltre ad essere come gli altri organismo di direzione della resistenza, si impose, senza intermediari, come struttura di governo del territorio liberato dall’occupazione nazifascista. Tra il 1943 e il 1945 ci sarebbe solo la sovranità individuale dei partigiani che hanno impugnato le armi per riempire il vuoto della sovranità aperta dallo sprofondamento dello Stato fascista; e qui starebbero le fondamenta del nuovo patto di cittadinanza secondo un recente saggio4, una cesura imposta da una moltitudine che insorge e crea una legittimità del nuovo agire giuridico. E solo in un secondo tempo si organizzeranno i partiti, fino ad arrivare al momento elettorale del 2 giugno 1946 in cui si votò il referendum fra monarchia e repubblica e si elesse l’Assemblea costituente già prevista dal Decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944; sul momento partitico, nato dai CLN, come unico davvero legittimante poneva invece l’accento la produzione giuridica tradizionale, primo fra tutti Costantino Mortati già nel 1945.
Nell’assemblea costituente, eletta con sistema proporzionale, prevalsero i tre grandi partiti di massa: la Democrazia Cristiana col 35% dei voti, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (20,68%) ed il Partito Comunista Italiano (18,93%); pochi i voti alla destra (Liberali, Qualunquisti, Monarchici e UDN), pochissimi al Partito d’Azione (1,45% e 7 seggi).
I lavori della costituente, composta da 556 parlamentari, durarono quasi 18 mesi eleggendo al proprio interno una Commissione di 75 membri incaricata di redigere il testo della Carta; questo fu proposto a gennaio 1947 all’assemblea generale per la discussione e sarà approvato il 22 dicembre 1947 con 458 voti a favore su 520 votanti (88% di consensi).
La nostra Costituzione è il frutto del confronto5 tra diverse culture politiche, socialista e comunista, liberaldemocratica e cristiano sociale. Tutte dettero un contributo importante, ma riuscendo a generare un “compromesso” fra le diverse ispirazioni dei partiti che le esprimevano: i “partiti totali” esaltati da Mortati riuscirono cioè ad esprimere una volontà comune, non restarono parti, espressione di ideologie o interessi di classe, ma disegnarono un comune principio costituzionale6.
Le premesse ideologiche del confronto posero sul piatto la tendenza operaista e statalista delle culture socialiste e marxiste, quella derivante dalla rivoluzione francese, ma aggiornata dalla sensibilità sociale e dell’equilibrio fra diritti sociali e di libertà, della cultura liberaldemocratica (e liberalsocialista) e quella del rispetto della persona e delle formazioni sociali della formazione cristiano sociale, la più recente nell’espressione partitica. Ma la sintesi è un passo avanti, non un collage.
La nostra costituzione si presenta anzitutto come una delle più avanzate espressioni del costituzionalismo democratico il cui paradigma sta nel riconoscere la rappresentatività delle istituzioni, strumento di espressione della sovranità popolare, e la piena affermazione e tutela sia dei diritti di libertà che dei diritti sociali; ma nella particolare declinazione della “democrazia sociale” che è insieme uguaglianza sostanziale, progetto di trasformazione e partecipazione popolare. E si consegna al legislatore ordinario, alle maggioranze future, non solo un vincolo procedurale e formale secondo il quale la legge è tale se approvata dalla maggioranza dei parlamentari eletti e promulgata dal Presidente della Repubblica, ma anche un vincolo di contenuto7: la Costituzione, quale norma sovraordinata e primaria, definisce e tutela principi e diritti fondamentali e garantisce la loro inviolabilità.
Fra i diritti e vincoli di maggior rilievo c’è il riconoscimento dei diritti fondamentali ed il principio di solidarietà (art. 2), completato e specificato da molti richiami della prima parte, dalla libertà personale dell’art. 13 (baluardo contro ogni repressione poliziesca) al diritto di espressione del pensiero dell’art. 21 (una delle tante antitesi rispetto al regime fascista del pensiero unico); l’uguaglianza formale dell’art. 3 (I comma, principio essenziale, se inteso come divieto di discriminazioni ed insieme alla tutela della dignità della persona) e quella sostanziale (al II comma che supera l’astratta uguaglianza dei soggetti di diritto per imporre alla repubblica il compito di realizzare il pieno sviluppo della persona mediante l’abbattimento degli ostacoli economici e sociali: una trasformazione sociale, se non una rivoluzione). Nei rapporti economici (Titolo III della I parte) si trovano poi precetti che disegnano da un lato il primato dei diritti sociali, una radicale innovazione delle costituzioni del XX secolo – il diritto alla salute, all’istruzione, il diritto ad un lavoro adeguatamente retribuito e alle prestazioni a sostegno del lavoratore inabile – non subordinati a vincoli economici e fonte anzi di indirizzo di politica economica (fino a stabilire un regime misto, di intervento in prima persona dello Stato nell’economia, non come mero regolatore), e limite e funzione delle libertà economiche (imprenditoriale, art. 41) e della proprietà (art. 42); dall’altro il ruolo dello stato di protagonista della vita economica nazionale: è titolare d’imprese e proprietà, le acquisisce nell’interesse generale (art. 43), e “riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende” (art. 46).
Un veloce sguardo alla II Parte ci mostra il disegno istituzionale incentrato sul primato del parlamento: la Carta è scritta da partigiani ed esuli, minoranze perseguitate che si fanno maggioranza costituente, da giuristi amanti delle libertà politiche e civili e anche perciò è attenta all’equilibrio fra i poteri, alla centralità del parlamento; e costruisce ad esempio l’originale figura di un presidente della repubblica che, pur privo di poteri interdittivi, ha strumenti di persuasione e poteri di nomina che gli consentono di esercitare il ruolo di garante della legalità costituzionale; ruolo che in modo più diretto, ma solo eventuale, se investita dagli altri organi, svolge la Corte costituzionale.
La Costituzione ha dovuto subito affrontare il dibattito sull’effettiva vigenza delle sue norme: prima negata dalla Cassazione, presto prevalse l’affermazione da parte della Corte costituzionale (con la prima sentenza del 1956; in dottrina V. Crisafulli) dell’immediata e indistinta cogenza sia delle norme “precettive”, sia delle norme “programmatiche” (da attuare con legislazione ordinaria) di ogni disposizione della Costituzione.
Ma la Carta è stata, sin dalla sua entrata in vigore, oggetto di contesa fra le forze politiche: l’unica stagione di attuazione deve purtroppo circoscriversi agli anni 1962-1978 durante i quali, compiendo una notevole stagione culturale e politica, si nazionalizza l’energia elettrica L. 1643/1962, si innova la disciplina dei licenziamenti Legge 604/1966, si introduce il divorzio L. 898/1970, si approva lo statuto dei lavoratori L. 300/1970, si regola il referendum abrogativo L. 352/1970, si approva l’ordinamento regionale L. 281/1970, si riconosce il diritto all’obiezione di coscienza L. 772/1972, si approva il nuovo diritto di famiglia L. 151/1975, si regola l’interruzione volontaria della gravidanza L. 194/1978, si istituisce il finanziamento pubblico dei partiti L. 195/1978, il trattamento delle malattie mentali L. 180/1978, il servizio sanitario nazionale L. 833/1978: questi sono alcuni dei momenti attuativi della costituzione, vere e proprie “riforme” del nostro ordinamento giuridico8, che talvolta rimossero disposizioni di matrice liberale o fascista nettamente in contrasto con la carta del 1948, ma più spesso introdussero diritti e tutele funzionali alla realizzazione dei principi di uguaglianza, solidarietà sociale, libertà.
Subito dopo la stagione delle riforme è iniziata una lunga fase di “congelamento”9cui sono seguiti tentativi di modifica formale di parti anche ampie della Costituzione, soprattutto della II parte. Peraltro si è arrivati solo alla approvazione parlamentare dei progetti del centrodestra nel 2005 (che avrebbe introdotto un radicale decentramento, di “devolution”, e un forte squilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo) e del centrosinistra nel 2015 (che avrebbe concentrato il potere legislativo nella sola Camera dei deputati in dialogo stretto con il governo, riducendo il Senato a fioca voce delle autonomie locali); entrambi questi due tentativi di modifica sono stati bocciati, nel 2006 e nel 2016, dal referendum confermativo previsto dall’art. 138 Cost. dimostrando da un lato una inaspettata tenuta della Costituzione nel sentimento popolare, dall’altro una intima debolezza dei tentativi di modifica promossi da maggioranze governative che vogliono ridurre la matrice pluralista e parlamentarista della Costituzione.
La sfida dei prossimi anni, dopo un progressivo indebolimento delle istituzioni rappresentative a favore degli esecutivi ed un diffuso sacrificio dei diritti sociali per perseguire obiettivi di stabilità finanziaria e monetariaa, sembra che sarà l’impegno per l’attuazione della nostra costituzione nel nostro ordinamento e nella definizione del contenuto degli ordinamenti sovranazionali10.

1S. Romano, Rivoluzione e diritto, 1944, in Frammenti di un dizionario giuridico, 1947.
2C. L. Ragghianti, articolo sulla Libertà dell’estate 1944, periodico toscano del Partito d’Azione.
3Il saggio tuttora più ampio e meditato sulla “scelta” ritengo sia Una guerra civile – saggio storico sulla moralità nella resistenza di Claudio Pavone, 1991.
4G. Filippetta, L’estate che imparammo a sparare, Storia partigiana della Costituzione, 2017.
5L’alto dibattito si può leggere negli Atti dell’Assemblea consultabili in rete su archivio.camera.it
6Vedi il saggio di M. Fioravanti Il compromesso costituzionale, Il Ponte, aprile 2009. Cfr. anche l’emblematico “rifiuto” del concetto di compromesso di P. Togliatti, Discorsi alla costituente, 1973, pag. 9.
7L. Ferrajoli, La democrazia costituzionale, 2016.
8Vere “riforme”, attuazione della costituzione, ancorate al concetto di “riformismo” che indica un progresso nell’organizzazione economica e sociale che interviene sul sistema capitalistico senza abbatterlo, come invece farebbe la rivoluzione; saranno poi chiamate spesso riforme anche le involuzioni neoliberiste che si produrranno non solo in Italia dagli anni ’90 in poi, in specie privatizzazioni, deregolamentazioni, rimozioni di diritti sociali faticosamente conquistati nei decenni precedenti.
9Dopo il “congelamento” del periodo 1948-1956, quando iniziò ad operare la Corte costituzionale, si può dire tale anche il ventennio 1980-2001 in cui si arrestò il processo riformatore e si avviarono, sulla spinta del neoliberismo angloamericano, riforme reazionarie in molti campi.
10A. Algostino, Democrazia sociale e libero mercato: Costituzione italiana versus “costituzione europea”?, in Costituzionalismo.it, saggio n. 243, 2007.
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Abstract del volume:




Alla vigilia del 75° anniversario della Liberazione di Firenze, la Sezione ANPI di Impruneta ha raccolto le storie di coloro, antifascisti e partigiani imprunetini, che negli anni della dittatura e della guerra furono protagonisti. Il volume è il risultato di un’approfondita ricerca condotta principalmente all’interno dell’Archivio dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea – nell’Archivio del Comune e nella sezione “Casellario Politico Centrale” dell’Archivio Centrale dello Stato – che ha permesso di ricavare i nomi degli antifascisti imprunetini che durante il Ventennio furono inseriti nella lista del casellario, lo strumento per la schedatura di massa dell’allora governo fascista e dei partigiani del territorio ai quali, alla fine della guerra, fu ufficialmente riconosciuto il ruolo avuto nella lotta di Liberazione.
Il volume infatti, oltre a inquadrare Impruneta all’interno del contesto storico e sociale del periodo di riferimento raccontando gli anni del Ventennio, l’organizzarsi dell’attività antifascista e la Resistenza, si arricchisce delle biografie dei cittadini che si opposero al fascismo e alla dittatura e dei partigiani che combatterono la guerra di Liberazione, raggiungendo, subito dopo l’8 settembre 1943, le prime bande armate che si erano rifugiate nelle zone boscose e montuose del preappennino e della Toscana centrale.
La memoria e i ricordi della comunità hanno consentito la restituzione di storie di vita e hanno dato la possibilità di omaggiare coloro che, a rischio della propria vita, continuarono ad affermare le proprie idee non abbracciando l’ideologia fascista, nonostante per anni avessero subito, intimidazioni, arresti e vessazioni di ogni genere. Attraverso queste biografie e le vicende dello specifico contesto locale, emergono gli aspetti più drammatici del sistema repressivo del fascismo e del regime che hanno riguardato la storia nazionale e anche i percorsi personali di chi scelse di opporsi.
Questa pubblicazione restituisce infine un pezzo di storia del territorio di Impruneta negli anni della dittatura e della guerra fino ai mesi della Liberazione contro il nazifascismo, un tassello quindi del più ampio quadro complessivo della Resistenza fiorentina, fondamentale non solo per conoscere il nostro passato, ma anche per affrontare con maggiore consapevolezza il nostro presente.

giovedì 12 settembre 2019

Due 11 settembre: pacifismo, socialismo e democrazia, laicità.

L'11.9.2001 vidi la folla alla tivù di un bar, guardai e rimasi a bocca aperta.
Fossi stato un po' più grande l'11.9.1973 sarei invece rimasto a pugni chiusi dalla rabbia, non avrei più dimenticato il socialismo democratico spento nel sangue dalla destra americana.

Il primo evento, tremila morti, enorme e assurdo, è un atto di terrorismo fanatico e nihilista. Il secondo insegna la necessità della ribellione, il peso delle responsabilità, la superiorità morale della democrazia e del socialismo sui regimi militari reazionari. Gli Usa sostennero nel '73 il golpe di Pinochet (che massacrò migliaia di oppositori) e il suo regime fino alla fine, scatenarono invece un'infinita guerra nel 2001 contro l'Afghanistan provocando centinaia di migliaia di morti. Ancora non si sono ritirati, da ultimo trattavano coi talebani.

L'11 settembre dovremmo farlo giornata contro la guerra e per la laicità e la democrazia, ecco. Per il senso del limite, della finitezza dell'esperienza umana.

martedì 3 settembre 2019

Diretta o mediata: conflitto o alleanza? Il giorno della piattaforma Rousseau

Votate come vi pare, ma a che gioco giocate?
Lo statuto del M5S consente al capo politico di sottoporre scelte al parere degli iscritti al sito Rousseau. Nel voto in corso oggi 3 settembre si tratta di esprimersi a favore o contro la formazione di "un governo" di alleanza fra il Movimento e il PD e a guida di Giuseppe Conte.

La preoccupazione di molti è sul possibile conflitto fra la scelta del gruppo parlamentare e dei dirigenti del movimento, già espressa nelle trattative e negli incontri con Mattarella, e il risultato della consultazione degli iscritti. E sul fatto che gli iscritti sono pochi e il funzionamento della piattaforma di voto Rousseau non dà garanzie di riservatezza e fedeltà (già due volte l'Autorità di garanzia ha mosso critiche e multato il gestore, la società di Casaleggio e soci).

Non ci sono invece dubbi sul fatto che lo statuto del M5S sia legittimo, in questa previsione (il capo politico potrebbe anche far rivotare chiedendo che si raggiunga la maggioranza assoluta degli iscritti per avere un risultato vincolante), e che non ci sia un conflitto giuridico in quanto il valore del voto è solo interno al movimento - e inciderebbe quindi sulle cariche e sui rapporti interni del movimento - e non incide quindi sui poteri del Presidente della Repubblica di designare il Presidente del Consiglio e sul Parlamento di votare la fiducia al governo, anche contro la decisione degli iscritti alla piattaforma Rousseau.
Un'eventuale azione giudiziaria di un iscritto al M5S o alla piattaforma potrebbe mirare ad annullare decisioni dei vertici che nel non tener conto della volontà espressa dalla piattaforma Rousseau conterrebbero una violazione dello statuto censurabile.

Ci sono precedenti pronunce su tali conflitti che evitano di valutare se uno statuto sia conforme o meno a principi di democraticità interna (e facendo ciò risolverebbero anche il problema della portata dell'art. 49 Cost.), ma applicano regole generali dell'ordinamento giuridico confrontandole con quanto scritto negli statuti. Il conflitto fra vertici e consultazione è probabile.

Il tribunale civile di Genova, Giudice Braccialini, su azione di una candidata a sindaco, in una pronuncia cautelare del 10.4.2017 scrive "la cifra democratica del Movimento 5 Stelle è costituita dal fatto che le sue regole statutarie si preoccupano di raggiungere un punto di equilibrio tra il momento assemblear/movimentista (incarnato dal secondo comma dell'art. 4 del Non Statuto e realizzato con originali forme telematiche) e l'istanza dirigista che viene riconosciuta ed associata a figura di particolare carisma e peso politico per il Movimento, come Beppe Grillo, il quale in seno a tale organizzazione politica cumula in modo non seriamente contestabile la qualità di "capo politico", come da Regolamento; e di "Garante del Movimento", come da Codice Etico".

Oggi che "capo politico" è un altro, Luigi Di Maio, i problemi aumentano.
Il problema non è di poco conto: nel caso di Genova la candidata cacciata vinse l'azione giudiziaria e avrebbe potuto presentarsi come "vera" candidata M5S (la cosa si risolse invece perché scelse di candidarsi sotto altra lista). Nel caso della scelta per Palazzo Chigi un'azione di iscritti al movimento che denunciassero la violazione dello statuto potrebbe portare alla sospensione o all'annullamento della delibera del "capo politico" Di Maio che non tenesse conto del risultato della consultazione?
Sempre il Tribunale di Genova (riportato anche in Roberto Bin, Onestà onestà, 2017, Lacostituzione.info) prende atto che è proprio il M5S che "vuole essere testimone della possibilità di realizzare un efficiente ed efficace scambio di opinioni e confronto democratico al di fuori di legami associativi e partiti senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi, riconoscendo alla totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo e indirizzo normalmente attribuito a pochi".

Ovviamente nelle regole costituzionali, scritte e non, non è previsto alcun effetto della decisione di un capo politico e della violazione o meno dello statuto di un partito sul procedimento di designazione, presentazione e votazione di un governo da parte del parlamento. Ma le conseguenze politiche sul M5S e sulle relazioni politiche globali sarebbero dirompenti.
Credo che sia saggio continuare a difendere l'indipendenza delle due sfere, istituzionale e associativa o partitica, anche a difesa del divieto del vincolo di mandato dei rappresentanti politici (art. 67 cost.). Ma una maggior chiarezza e plausibilità degli statuti dei partiti che concorrono alla determinazione delle cariche e delle politiche nazionali e locali è auspicabile.

E la via che sembra naturale è l'attuazione del dettato dell'art. 49 cost. sull'interpretazione del quale c'è già un'ampia letteratura.
Intanto si deve registrare che la legittima aspirazione ad introdurre meccanismi di democrazia diretta sia nei procedimenti deliberativi istituzionali, sia in quelli partitici (cose da tener distinte con tenacia), trova strade diverse, non sempre compatibili con il valore, i tempi e le procedure della democrazia rappresentativa. Difendere questa, anche nelle forme evolute che ad esempio un rafforzamento e ampliamento dell'istituto del referendum potrebbe portare, non deve esser letta come battaglia di retroguardia o elitarista, ma come difesa del più limpido e sperimentato metodo di partecipazione alla vita collettiva che conosciamo.

sabato 29 giugno 2019

Non abbiamo bisogno di Salvini

Quali obiettivi di sicurezza e controllo dei traffici di migranti abbiamo? Di questo non si dibatte, si sa solo che gli ultimi ministri dell'interno, Minniti e Salvini, hanno voluto bloccare gli 'sbarchi' che si contavano in poche decine  di migliaia e ora poche migliaia di persone l'anno che in gran parte vanno all'estero. Del resto degli stranieri non si parla perché non si vuol ammettere che l'Italia, la sua stanca anagrafe, il suo welfare, le sue imprese, le sue famiglie ne hanno bisogno. Dei regolari e, spesso, anche dei pochi irregolari che ammontano a circa 500 milla.

Ma un Paese che ha bisogno di stranieri non ha bisogno di Salvini. Trump ha subito rivolte di grandi aziende quando ha minacciato di bloccare l'ingresso in USA di lavoratori da alcuni paesi.

E allora Salvini rigira con cinico opportunismo il coltello nella piaga degli insignificanti, seppur drammatici, sbarchi. E invoca oggi contro la comandante della nave della Ong Sea Watch il codice della navigazione che punisce la resistenza contro nave da guerra nazionale; in altre occasioni le procure hanno invocato il testo unico sull'immigrazione che punisce chi favorisce l'immigrazione clandestina; per entrambe  le condotte sembra applicabile la scriminante dell'art. 54 c.p. che tutela chi abbia agito per salvare sé o altri da un pericolo grave alla persona (cui fa riferimento espresso l’art. 12 del d.lgs. 286 del 1998). E le convenzioni internazionali in materia impongono la prima accoglienza, salvo poi mandare altrove o respingere chi non abbia il diritto di restare.

Inoltre l'intenzione di consegnare i migranti alle autorità italiane e il ruolo della Ong di soccorso, non di organizzazione della migrazione, sembrano escludere alcuna clandestinità e illiceità. Le procure, o i Gip, di solito archiviano.

Ma una probabile assoluzione della comandante della Sea Watch non cancellerà il clamore che le varie vicende avranno intanto avuto e Salvini le provoca e gestisce in modo da avere la sua fetta di fetido consenso, non il 100%, gli basta un terzo, o poco più, quota che in qualunque dilemma ha l'opinione meno solida o meno fortunata, ed è contento.

lunedì 27 maggio 2019

Regionalismo differenziato: un disegno reazionario e incostituzionale

 - comunicato dell'associazione nazionale dei Giuristi Democratici - 20.5.2019

Nell'assenza —perseguita scientemente dai promotori— di un dibattito pubblico, ma anche solo di un'informazione pur sommaria al riguardo, reputiamo indispensabile denunciare questa pericolosa proposta. Spezzare l'unità sul tema fiscale, su tutte le norme che riguardano l'istruzione (nonostante gli accordi raggiunti fra sindacati e Governo di cui non si può che dubitare, per il parallelo e incompatibile accordo con le Regioni) e sugli altri diritti sociali, per tacere delle altre materie che sarebbero trasferite, vuol dire dissestare buona parte dell'impianto costituzionale; per di più, tramite una legge ordinaria.
Il disegno reazionario e incostituzionale del regionalismo differenziato.

La minacciata approvazione del "regionalismo differenziato", un'interpretazione estremista, ma comunque prevedibile, dell'art. 116 Cost., terzo comma, come modificato nel 2001, deve essere letta in tutta la sua portata eversiva e perciò contrastata senza incertezze.

Le note vicende che hanno preparato le attuali pretese delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono partite dalle Leggi 15 e 16 del 2014 della Regione Veneto, con cui si indicevano referendum propositivi su altrettante proposte di legge nazionale che la Corte costituzionale, con sentenza n. 118/2015, respinse in buona parte per diretto contrasto con la Costituzione; ma anche il solo referendum ammesso e poi tenutosi nel 2017, assieme a uno analogo nella Regione Lombardia, hanno forti implicazioni costituzionali e avrebbero dovuto essere dichiarati inammissibili, nel solco dei precedenti della Consulta, fra cui le sentenze 365/2007 e 470/1992.

Dopo la prevedibile vittoria dei Sì ai due referendum lombardo-veneti scatta l'allarme: il 29 novembre 2017 Giuseppe Pisauro, sentito in Parlamento per l'Ufficio parlamentare di bilancio sui progetti di regionalismo differenziato, afferma che il trasferimento di competenze ed il trattenimento dell'80% dei tributi raccolti in Regione sono insostenibili per la finanza pubblica. Infatti non è replicabile l'oneroso modello delle Regioni a statuto speciale, ed i propositi di Veneto e Lombardia sono anche più radicali e di rottura dell'unità della Repubblica. Eppure le intese con le tre Regioni saranno poi approvate dal Governo Gentiloni il 28.2.2018, a camere sciolte ed a pochi giorni dal loro rinnovo e, quindi, con i poteri dell'esecutivo ridotti alla sola "ordinaria amministrazione" che non si può ritenere comprenda anche il potere di sottoscrivere intese, sia pure preliminari, di questa portata.

Si è dato così l'avvio a un procedimento che potrebbe portare all'approvazione di intese Stato-Regioni che attuerebbero l'art. 116, co. 3o Cost., dando corpo al sogno della Lega di mantenere sul "territorio (del Nord) il cosiddetto "residuo fiscale”. Dietro questo pseudo-istituto leghista si nasconde la rottura dell'uguaglianza delle cittadine e dei cittadini, del principio di solidarietà redistributiva e di equità che sta alla base dell'imposizione tributaria disegnata dall'art. 53 Cost.; vi si vuol sostituire la redistribuzione entro lo stesso territorio della quasi totalità del prelievo fiscale. Un proposito inaccettabile in uno stato unitario, seppur decentrato, perché le imposte gravano sugli individui in base alla loro capacità contributiva e sono informate al criterio della progressività (sia pur distorto da evasione e prevalere delle imposte indirette, ecc.); se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo stato in aree reddituali e si realizza una secessione iniqua, su criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi e a Costituzione formalmente invariata.

Il testo delle intese dettagliate che sono già state raggiunte è stato pubblicato sul web da roars.it, ma il Governo ne ha smentito la fondatezza. Nelle intese generali —piene di furbe omissioni— sinora approvate dalle parti, comunque, l'art. 4 prevede una riserva per ciascuna Regione di tributi erariali maturati sul territorio, seppur senza indicare la proporzione; il Veneto (nel ddl bocciato dalla Corte costituzionale) chiedeva l'80% (in un altro ddl si parla del 90%): nessuno stato, nemmeno federale, può reggere con un grado simile di sottrazione di risorse. Inoltre, una solo parziale attuazione del Titolo V della nostra Carta fondamentale ci consegna anche una generale indeterminatezza dei costi e fabbisogni da un lato, e dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) dall'altro —indicatore, questo, peraltro riferibile all'art. 117, lett. m Cost., da criticare perché consente la differenziazione delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali fra Regione e Regione, anche se ora appare come un argine alla derogabilità verso il basso. Si è peraltro già previsto che le risorse saranno fissate da una "commissione paritetica" formata da rappresentanti del Governo centrale e delle Regioni, con completo esautoramento del Parlamento su un tema essenziale: difficile pensare che un governo a traino leghista possa contenere le spinte egoiste delle Regioni.

L'iter che abbiamo dinanzi, come confermato di recente dalla ministra per la Coesione sociale ed il Mezzogiorno Barbara Lezzi, è questo: il Parlamento voterà una pre-intesa con contenuti e indirizzi generali, su tale base il Governo contratterà l'intesa in termini più dettagliati con le Regioni, quindi la sottoporrà al Parlamento il quale potrà solo approvare o respingere, non emendare il testo (tale vincolo discende dalla necessità dell'intesa prevista dall'art. 116, co. 3o Cost.: ma è contestabile un azzeramento di ogni prerogativa dello Stato); il voto dovrà avvenire a maggioranza assoluta. Le disposizioni di dettaglio sarebbero quindi fuori dalla discussione ed approvazione parlamentare, e nemmeno adottate con decreti legislativi su delega parlamentare, ma con meri Dpcm, norme secondarie, regolamenti, sottratti così anche al vaglio della Corte costituzionale. Le intese varranno per 10 anni, solo dopo potranno esser modificate secondo lo stesso iter, motivo per cui alcuni ritengono che sia ammissibile solo l'iniziativa regionale, non parlamentare o governativa (iniziativa quindi approvata dalla maggioranza di un Consiglio regionale): si tratta di una sostanziale immodificabilità.

Tale attuazione in senso autonomista dell'art. 116, co. 3o Cost. avrebbe effetti su tutto il Titolo V, in quanto nelle intese si prevede la trasformazione di buona parte delle competenze concorrenti (art. 117, co. 3o) in competenze esclusive delle Regioni contraenti; e la sottrazione allo Stato anche delle tre materie sue esclusive previste dal 2o comma dell'art. 117. Ma l'effetto non è solo di diritto amministrativo, di competenze: incide direttamente sulla "costituzione economica", ossia sul prelievo fiscale, sul principio di uguaglianza, su quello di solidarietà e sui diritti sociali.

E non è nemmeno solo una questione di compatibilità finanziaria e di sottrazione di risorse, bensì di vero e proprio attacco all'unità morale e culturale del Paese, atteso che spezzare l'unità sul tema fiscale, su tutte le norme che riguardano l'istruzione (nonostante gli accordi raggiunti fra sindacati e Governo di cui non si può che dubitare, per il parallelo e incompatibile accordo con le Regioni) e sugli altri diritti sociali, per tacere delle altre materie che sarebbero trasferite, vuol dire dissestare buona parte dell'impianto costituzionale; per di più, tramite una legge ordinaria.
Con la seconda "leggerezza" in tema da parte del centrosinistra, dopo la modifica del Titolo V nel 2001, si è messo nelle mani della Lega questo potente strumento eversivo. In parlamento le intese potrebbero trovare l'opposizione del Movimento 5 stelle, ma l'appoggio di Forza Italia e Fratelli d'Italia; non sappiamo come si comporterà il Partito democratico. Il rischio di approvazione è concreto ed è urgente informare al meglio —e responsabilizzare— anche i Consigli regionali e i parlamentari.

Per analisi più approfondite rinviamo alle fondamentali e perspicaci analisi di Massimo Villone, sul web e sui quotidiani "Il Manifesto" e "La Repubblica" in particolare al libro "in divenire" Italia, divisa e diseguale, Editoriale scientifica, 2019 (scaricabile gratuitamente da www.editorialescientifica.com) e a Marco Esposito, Zero al Sud, Rubbettino, 2018; con attenzione soprattutto ai profili economici, rimandiamo a Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, Laterza, 2019 (scaricabile gratuitamente da www.laterza.it) e al suo più aggiornato articolo online su roars.it: https://www.roars.it/online/la-bufala-pro-regionalismo-la-spesa-media-al-nord-e-mediamente-piu-bassa-e-i-livelli-di-servizio-migliori/.

20 maggio 2019
ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI

sabato 18 maggio 2019

Regionalismo: sotto il velo populista, la peggiore destra anticostituzionale

a minacciata approvazione del "regionalismo differenziato", un'interpretazione estremista, ma comunque prevedibile, dell'art. 116 Cost., terzo comma, come modificato nel 2001, deve essere letta in tutta la sua portata eversiva e perciò contrastata senza incertezze.
Le note vicende che hanno preparato le attuali pretese delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono partite dalle Leggi 15 e 16 del 2014 della Regione Veneto, con cui si indicevano referendum propositivi su altrettante proposte di legge nazionale che la Corte costituzionale, con sentenza n. 118/2015, respinse in buona parte per diretto contrasto con la Costituzione; ma anche il solo referendum ammesso e poi tenutosi nel 2017, assieme a uno analogo nella Regione Lombardia, hanno forti implicazioni costituzionali e avrebbero dovuto essere dichiarati inammissibili, nel solco dei precedenti della Consulta, fra cui le sentenze 365/2007 e 470/1992.

Dopo la prevedibile vittoria dei Sì ai due referendum lombardo-veneti scatta l'allarme: il 29 novembre 2017 Giuseppe Pisauro, sentito in Parlamento per l'Ufficio parlamentare di bilancio sui progetti di regionalismo differenziato, afferma che il trasferimento di competenze ed il trattenimento dell'80% dei tributi raccolti in Regione sono insostenibili per la finanza pubblica. Infatti non è replicabile l'oneroso modello delle Regioni a statuto speciale, ed i propositi di Veneto e Lombardia sono anche più radicali e di rottura dell'unità della Repubblica. Eppure le intese con le tre Regioni saranno poi approvate dal Governo Gentiloni il 28.2.2018, a camere sciolte ed a pochi giorni dal loro rinnovo e, quindi, con i poteri dell'esecutivo ridotti alla sola "ordinaria amministrazione" che non si può ritenere comprenda anche il potere di sottoscrivere intese, sia pure preliminari, di questa portata.

Si è dato così l'avvio a un procedimento che potrebbe portare all'approvazione di intese Stato-Regioni che attuerebbero l'art. 116, co. 3o Cost., dando corpo al sogno della Lega di mantenere sul "territorio (del Nord) il cosiddetto "residuo fiscale”. Dietro questo pseudo-istituto leghista si nasconde la rottura dell'uguaglianza delle cittadine e dei cittadini, del principio di solidarietà redistributiva e di equità che sta alla base dell'imposizione tributaria disegnata dall'art. 53 Cost.; vi si vuol sostituire la redistribuzione entro lo stesso territorio della quasi totalità del prelievo fiscale. Un proposito inaccettabile in uno stato unitario, seppur decentrato, perché le imposte gravano sugli individui in base alla loro capacità contributiva e sono informate al criterio della progressività (sia pur distorto da evasione e prevalere delle imposte indirette, ecc.); se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo stato in aree reddituali e si realizza una secessione iniqua, su criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi e a Costituzione formalmente invariata.

Il testo delle intese dettagliate che sono già state raggiunte è stato pubblicato sul web da roars.it, ma il Governo ne ha smentito la fondatezza. Nelle intese generali —piene di furbe omissioni— sinora approvate dalle parti, comunque, l'art. 4 prevede una riserva per ciascuna Regione di tributi erariali maturati sul territorio, seppur senza indicare la proporzione; il Veneto (nel ddl bocciato dalla Corte costituzionale) chiedeva l'80% (in un altro ddl si parla del 90%): nessuno stato, nemmeno federale, può reggere con un grado simile di sottrazione di risorse. Inoltre, una solo parziale attuazione del Titolo V della nostra Carta fondamentale ci consegna anche una generale indeterminatezza dei costi e fabbisogni da un lato, e dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) dall'altro —indicatore, questo, peraltro riferibile all'art. 117, lett. m Cost., da criticare perché consente la differenziazione delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali fra Regione e Regione, anche se ora appare come un argine alla derogabilità verso il basso. Si è peraltro già previsto che le risorse saranno fissate da una "commissione paritetica" formata da rappresentanti del Governo centrale e delle Regioni, con completo esautoramento del Parlamento su un tema essenziale: difficile pensare che un governo a traino leghista possa contenere le spinte egoiste delle Regioni.

L'iter che abbiamo dinanzi, come confermato di recente dalla ministra per la Coesione sociale ed il Mezzogiorno Barbara Lezzi, è questo: il Parlamento voterà una pre-intesa con contenuti e indirizzi generali, su tale base il Governo contratterà l'intesa in termini più dettagliati con le Regioni, quindi la sottoporrà al Parlamento il quale potrà solo approvare o respingere, non emendare il testo (tale vincolo discende dalla necessità dell'intesa prevista dall'art. 116, co. 3o Cost.: ma è contestabile un azzeramento di ogni prerogativa dello Stato); il voto dovrà avvenire a maggioranza assoluta. Le disposizioni di dettaglio sarebbero quindi fuori dalla discussione ed approvazione parlamentare, e nemmeno adottate con decreti legislativi su delega parlamentare, ma con meri Dpcm, norme secondarie, regolamenti, sottratti così anche al vaglio della Corte costituzionale. Le intese varranno per 10 anni, solo dopo potranno esser modificate secondo lo stesso iter, motivo per cui alcuni ritengono che sia ammissibile solo l'iniziativa regionale, non parlamentare o governativa (iniziativa quindi approvata dalla maggioranza di un Consiglio regionale): si tratta di una sostanziale immodificabilità.

Tale attuazione in senso autonomista dell'art. 116, co. 3o Cost. avrebbe effetti su tutto il Titolo V, in quanto nelle intese si prevede la trasformazione di buona parte delle competenze concorrenti (art. 117, co. 3o) in competenze esclusive delle Regioni contraenti; e la sottrazione allo Stato anche delle tre materie sue esclusive previste dal 2o comma dell'art. 117. Ma l'effetto non è solo di diritto amministrativo, di competenze: incide direttamente sulla "costituzione economica", ossia sul prelievo fiscale, sul principio di uguaglianza, su quello di solidarietà e sui diritti sociali.

E non è nemmeno solo una questione di compatibilità finanziaria e di sottrazione di risorse, bensì di vero e proprio attacco all'unità morale e culturale del Paese, atteso che spezzare l'unità sul tema fiscale, su tutte le norme che riguardano l'istruzione (nonostante gli accordi raggiunti fra sindacati e Governo di cui non si può che dubitare, per il parallelo e incompatibile accordo con le Regioni) e sugli altri diritti sociali, per tacere delle altre materie che sarebbero trasferite, vuol dire dissestare buona parte dell'impianto costituzionale; per di più, tramite una legge ordinaria.
Con la seconda "leggerezza" in tema da parte del centrosinistra, dopo la modifica del Titolo V nel 2001, si è messo nelle mani della Lega questo potente strumento eversivo. In parlamento le intese potrebbero trovare l'opposizione del Movimento 5 stelle, ma l'appoggio di Forza Italia e Fratelli d'Italia; non sappiamo come si comporterà il Partito democratico. Il rischio di approvazione è concreto ed è urgente informare al meglio —e responsabilizzare— anche i Consigli regionali e i parlamentari.

Per analisi più approfondite rinviamo alle fondamentali e perspicaci analisi di Massimo Villone, sul web e sui quotidiani "Il Manifesto" e "La Repubblica" in particolare al libro "in divenire" Italia, divisa e diseguale, Editoriale scientifica, 2019 (scaricabile gratuitamente da www.editorialescientifica.com) e a Marco Esposito, Zero al Sud, Rubbettino, 2018; con attenzione soprattutto ai profili economici, rimandiamo a Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, Laterza, 2019 (scaricabile gratuitamente da www.laterza.it) e al suo più aggiornato articolo online su roars.it: https://www.roars.it/online/la-bufala-pro-regionalismo-la-spesa-media-al-nord-e-mediamente-piu-bassa-e-i-livelli-di-servizio-migliori/.

20 maggio 2019
ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI