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lunedì 4 agosto 2014

Jobs Act e Costituzione. Svolta autoritaria e riduzione dei diritti sociali nel programma del governo Renzi (poi in autunno si cancella l’art. 18 St. Lav.).

di Paolo Solimeno

(articolo del 4.8.2014 uscito su hyperpolis.it
http://www.hyperpolis.it/online/jobs-act-e-costituzione-svolta-autoritaria-e-riduzione-dei-diritti-sociali-nel-programma-del-governo-renzi/ )

In questo scorcio di legislatura i due disegni di legge forse più rilevanti, su cui la maggioranza governativa vuol mostrarsi più impegnata, portano due numeri in sequenza: il n. 1428 è il “jobs act”, un ddl di delega al governo per ridisegnare i contratti di lavoro, gli ammortizzatori sociali e le politiche per l’impiego; il n. 1429 è la riforma costituzionale, un corposo intervento sulla Costituzione per togliere funzioni ed elettività al Senato, rafforzare il governo e modificare il titolo V.

Le intenzioni dei due ddl sono molteplici, ma alcune senz’altro chiare: ridurre la rappresentatività delle istituzioni, dare mano libera all’esecutivo (chiunque vinca la lotteria con l’Italicum: le opposizioni che punterebbero su una politica economica e fiscale radicalmente diversa sono tenute fuori gioco), accrescere la flessibilità del lavoro e ridurre il peso degli ammortizzatori sociali sulla finanza pubblica, rendere gli organismi di garanzia (che vigilano sulla conformità dell’ordinamento ai principi costituzionali) omogenei al disegno governativo.

Nelle intenzioni – ovvero al netto degli emendamenti proposti da opposizioni interne o esterne alla maggioranza governativa che la pregiudiziale dei vincoli di bilancio ex art. 81 Cost. sta falcidiando già in Commissione Lavoro al Senato1 – il “jobs act” vuol rendere più flessibile il lavoro, non investe un euro sugli ammortizzatori sociali (anche a causa del reperimento di fondi straordinari per la detrazione fiscale di 80 euro escogitata prima delle elezioni europee), ridisegna un po’ i centri per l’impiego e altri strumenti per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Strettamente legato al “jobs act”, anzi suo primo assaggio, è stato il DL Poletti, n. 34/2014, sul contratto a termine e sull’apprendistato che ha sostanzialmente liberalizzato il contratto a termine rendendolo acausale, ovvero cancellando le ultime disposizioni che ancora restavano a delimitarne l’utilizzo entro i limiti di una almeno dichiarata e dimostrabile connessione della scadenza del rapporto con esigenze organizzative e produttive (ora si può semplicemente apporre un termine ai contratti e farli durare con lo stesso lavoratore fino a 36 mesi, superabili in diversi settori o per deroga contrattuale, e entro questo termine si può fare sino ad 8 rinnovi dello stesso contratto e un numero enorme di contratti, centinaia); quanto all’apprendistato si è tolto ogni vincolo formativo, lasciando però i vantaggi fiscali e di riduzione della retribuzione, un vero scandalo.

Non è di poco interesse vedere come un intervento su un tema così rilevante come il contratto a termine, rilevante in ogni paese europeo e non in tempi di spasmodica e miope ricerca della riduzione dei costi del lavoro per motivi concorrenziali e quindi di redditività delle imprese2, sia stato approvato con decreto legge 34 del 20 marzo 2014 e presentato lo stesso giorno alla Camera che lo ha assegnato alla commissione Lavoro che lo ha esaminato e passato all’Aula dove l’esame è durato per sei sedute ed è stato approvato il 24 aprile 2014; dunque al Senato è stato nelle varie Commissioni Lavoro, Affari Costituzionali, ecc., dal 29 aprile al 5 maggio, quindi è andato in Aula ed è stato approvato, con modificazioni, il 7 maggio: pertanto è dovuto tornare alla Camera nel nuovo testo approvato dal Senato, nuovi esami in Commissioni e approvazione definitiva il 15 maggio 2014. Questi, se c’è una volontà politica e una maggioranza che sostiene l’indirizzo governativo, i tempi di approvazione ripeto con modifiche. Velocizzarli vuol dire impedire il dibattito pubblico.

Contro queste disposizioni, dopo un tentativo ostruzionistico dei parlamentari di Sel e M5S, si sono levate molte critiche ed è stata presentata una denuncia di infrazione di direttiva comunitaria alla Corte di Giustizia dell’UE da parte dell’associazione nazionale dei Giuristi Democratici. Nella denuncia dei G.D. si evidenziano i chiari profili di violazione della direttiva sui rapporti a termine, n. 1999/70, che furono valutati già nel 2000 quando i radicali proposero una abrogazione radicale della legge 230/1962 che avrebbe negato la tutela chiesta dalla direttiva, non diversamente da quanto fa il DL 34 rispetto alle disposizioni dirette a disincentivare il fenomeno: ebbene, la Corte costituzionale dichiarò allora non ammissibile quel referendum perché avrebbe lasciato il nostro ordinamento in contrasto palese con la normativa comunitaria. Altro parametro interessante è quello dell’ordinamento greco che pure aveva un limite solo temporale (di 24 mesi) all’utilizzo del contratto a termine e che ugualmente è stato ritenuto illegittimo da due sentenze della Corte di giustizia europea3.

In sostanza con queste innovazioni si attua a) la cancellazione definitiva di ogni necessario riferimento a “ragioni oggettive” che giustifichino l’assunzione a tempo determinato invece che indeterminato; né serviranno “ragioni oggettive” che giustifichino la proroga consentita fino a 8 volte consecutive per ciascun contratto; b) l’eliminazione di alcun limite al numero di contratti sottoscrivibili: i GD nella denuncia ipotizzano “un primo contratto di 14 giorni e 8 successive proroghe di due giorni per un totale di 30 giorni complessivi: sarebbero ben possibili 36 successivi contratti (purché intervallati da almeno 10 giorni non lavorati) e 288 proroghe tra le medesime parti sulla stessa posizione lavorativa senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi l’assunzione precaria”; inoltre, fanno notare, manca “per larga parte dei lavoratori italiani anche un qualsivoglia termine massimo di utilizzabilità con tale tipologia contrattuale precaria e l’assenza comunque di termini certi, in quanto anche per le tipologie contrattuali per cui la legge dispone il tetto dei 36 mesi esso è sempre derogabile tramite accordo sindacale”.

Il risultato è che il datore di lavoro – che purtroppo comunque non assumerà, ma se volesse – potrà assumere il lavoratore prima come apprendista con grandi risparmi e senza formarlo4, poi fargli contratti a termine per altri 36 mesi e infine usare il contratto “Ichino” che prevederà probabilmente un patto di prova fino a tre anni. Il precariato si estende a fette importanti della vita lavorativa.

A fronte di ciò, come detto, nel ddl 1428 non sono previste forme di ammortizzatori sociali estese a tutte le forme di contratto, ovvero per disoccupazione di ogni provenienza, ma anzi si aggravano le limitazioni esistenti dopo la riforma Fornero legge 92/2012. Inoltre si accentua la tendenza assicurativa del sistema di ammortizzatori, legandolo alla carriera contributiva del lavoratore, invece di farlo gravare sulla fiscalità (o contribuzione) generale. Le risorse per le politiche attive restano inalterate, nel ddl si pensa solo ad un riordino organizzativo, quando piuttosto l’Ente pubblico ISFOL denuncia chiaramente il livello irrisorio di risorse dedicate dallo stato italiano alle politiche attive per l’impiego (www.isfol.it, studio del 14.3.2014).

Altro intervento davvero dirompente (ma, va da sé, a costo zero) è il “compenso orario minimo” che sembra introdurre un sistema generalizzato per evitare lo sfruttamento dei lavoratori in una fase di bassa occupazione, ma in realtà indebolisce lo strumento della contrattazione collettiva che già c’è: si finge infatti di dimenticare che nell’ordinamento italiano esiste già il “salario minimo” grazie alla giurisprudenza costituzionale e di merito che ha applicato l’art. 36 Cost. e la retribuzione sufficiente e proporzionata in ragione del lavoro prestato e delle esigenze del lavoratore. Introdurre un “compenso orario minimo” vuol dire dare una tutela ben minore e circoscritta e al contempo attaccare frontalmente la Contrattazione collettiva, superare i CCNL.

Le critiche dei sindacati, dinanzi a prospettive di questa portata, sono molto tenere. Più decise quelle avanzate da alcune associazioni, fra cui i Giuristi Democratici: gli atti sono inutilmente acquisiti dalla Commissione Lavoro del Senato e si trovano su http://www.senato.it/Leg17/4497.

Veniamo alla proposta di “contratto a tutele crescenti” di cui si è parlato nei mesi scorsi: è un’idea di Pietro Ichino, noto docente di diritto del lavoro e senatore di Scelta Civica, trasfusa in un emendamento all’art. 4 del ddl 14285. La proposta, vecchia di alcuni anni e simile ad altra degli economisti Boeri e Garibaldi, giunge ora in parlamento come emendamento e integrazione di peso al testo più in vista del governo Renzi e ha qualche chance di essere approvata, visto il viatico introdotto in sede di conversione del DL 34/14 sul contratto a termine6 che sostanzialmente dice che quel progetto è fatto proprio dalla maggioranza.

L’idea di fondo di Ichino è di evitare che l’unico contratto a disposizione in questi tempi di crisi economica e occupazionale sia il contatto a termine (reso così agibile e invitante dal DL 34) e che il datore debba avere la possibilità di scegliere senza timore un’assunzione a tempo indeterminato da cui possa però recedere a piacimento nei primi 36 mesi: assomiglia molto ad un altro contratto a termine camuffato, in realtà. Lo strumento formale sarebbe la sospensione per i primi tre anni delle tutele dell’art. 18 Statuto Lavoratori (quel che resta dopo le modifiche della legge Fornero n. 92/2012), ipotesi su cui la segretaria CGIL Camusso ha già espresso un’apertura, per consentire al datore di recedere liberamente, dietro il pagamento di una lieve sanzione al lavoratore, per ora si è proposto un’indennità pari a due giorni di retribuzione per ogni mese lavorato: così, nell’ipotesi peggiore, se si è lavorato tutti i 36 mesi a libera recedibilità, siamo circa a due mesi e mezzo di indennizzo, pari alla sanzione minima della legge 604/66 per il licenziamento illegittimo. Una sanzione davvero tenue.


Questa ulteriore precarizzazione introdurrebbe una deroga corposa alla tutela del rapporto di lavoro, chiamando a tempo indeterminato un contratto che di fatto è a libera recedibilità per i primi 36 mesi. Per ora la previsione di Ichino è invisa ai parlamentari del PD, lo stesso ministro Poletti teme ostacoli per la esplicita deroga all’art. 18, ma la previsione di questo nuovo tipo di contratto già nell’art. 1 della legge di conversione del DL 34/2014 non può non esser letta come un impegno ad andare avanti.

Comunque la normativa offre già oggi una flessibilità spinta e ammortizzatori sociali e politiche di formazione del tutto inadeguate, ben lontane dalla sbandierata flexicurity applicata in Danimarca e Olanda in cui quello che negli anni ’90 era chiamato il “golden triangle” è appunto costituito non solo da flessibilità e mobilità del mercato del lavoro, ma anche dagli altri due poli indispensabili: un sistema di welfare solido ed esteso ad ogni forma di disoccupazione e politiche attive del lavoro che agevolano l’ingresso o il rientro nel mondo del lavoro. Il modello italiano non accenna a definirsi che nel primo elemento, la flessibilità, e scoprire che il Jobs act è basato su una costruzione del welfare “a costo zero” svela purtroppo la volontà di effettuare solo tagli, deregolamentazione, precarizzazione.


L’effetto sociale della flexicurity è ben diverso a seconda che il modello sia applicato così come suggeriscono le esperienze Nord europee, oppure dimidiato, prendendo quel che si vuole (e si può): la sola flessibilità, ovvero la libera recedibilità del datore di lavoro, unita ad un intervento sugli ammortizzatori sociali a costo zero (quindi con nessun rafforzamento degli strumenti esistenti, ma solo con scarse rimodulazioni ed un risparmio sulla fiscalità generale che ne ridurrà il finanziamento) provocherà un impoverimento della classe lavoratrice.


Il bilanciamento del modello sarebbe invece la sua forza: lavori meno stabili, non per la vita, ma con chance di riqualificazione e formazione, ammortizzatori generalizzati e vincolati all’impegno del lavoratore nel proprio reinserimento, agevolazioni all’assunzione, hanno in fondo effetti redistributivi e sostengono la domanda favorendo gli investimenti nel settore produttivo. Se si priva il sistema del sostegno ai disoccupati si impoverisce una categoria illudendosi di arricchire l’altra, è il modello neoliberista che ha già dato prova di essere fallimentare proprio perché squilibrato.


Quando in autunno si riprenderà l’esame del ddl 1428 – e poi dei decreti delegati da approvare entro sei mesi dalla delega – si sarà ormai approvato in prima lettura sia al Senato che alla Camera un progetto di riforma costituzionale che farà percepire come indebita intromissione ogni critica parlamentare al volere del governo: forse il vero obiettivo di questa stagione di cronoprogrammi, tagliole, canguri e date fisse per lo stravolgimento dell’assetto istituzionale democratico è proprio la delegittimazione della dialettica parlamentare e sociale, la ricerca del consenso attraverso il dialogo diretto con i cittadini, senza intermediazioni, per cui le riforme basta annunciarle ed ogni ostacolo è contro il bene della nazione.


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1http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=ListEmendc&leg=17&id=44250

2Un’accurata, anche se ideologica, analisi della situazione in Europa (prima del dl 34/2014 italiano) su http://www.bollettinoadapt.it/old/files/document/16473delconte_fratell.pdf

3Il testo integrale della denuncia con tutti i riferimenti normativi e giurisprudenziali è su http://www.giuristidemocratici.it/post/20140401200444/post_html

4Un emendamento al ddl 1428 proposto da Ichino all’art. 4, comma 1, introdurre questa “sanzione”: «e-bis) in materia di apprendistato previsione, quale sanzione per l’inadempimento grave dell’obbligo di formazione di cui sia responsabile esclusivamente il datare di lavoro, della conversione del contratto di apprendistato in contratto di lavoro ordinario a tempo determinato, il cui termine finale coincide con quello originariamente previsto per il periodo di apprendistato.»

5«1. Il Governo è delegato ad adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge un decreto legislativo contenente un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente, senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro, secondo i criteri che seguono:

a) la nuova disciplina legislativa deve essere redatta in modo da allinearsi agli standard stabiliti dalle direttive europee e dalle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, e da soddisfare i requisiti di semplicità e chiarezza indicati nel Decalogue for Smart Regulation emanato il 12 novembre 2009 dal Gruppo di studio di alto livello incaricato della sua predisposizione dalla Commissione Europea, in particolare i requisiti dell’agevole lettura da parte di tutti i destinatari della disciplina stessa e dell’agevole traducibilità in lingua inglese;

b) la nuova disciplina legislativa deve essere redatta in forma di novella degli articoli da 2082 a 2134 e da 2239 a 2245 del Codice civile, avendosi cura di collocare il più possibile le nuove norme nella stessa posizione delle norme omologhe precedenti, in modo da rendere il più facile possibile il loro reperimento.».

Conseguentemente sostituire la rubrica dell’articolo con la seguente: «(Delega al Governo per l’emanazione di un testo unico semplificato delle norme che disciplinano i rapporti di lavoro)»

6L’art. 1. dettato dalla legge di conversione n. 78/2014 dice: “Considerata la perdurante crisi occupazionale e l’incertezza dell’attuale quadro economico nel quale le imprese devono operare, nelle more dell’adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente e salva l’attuale articolazione delle tipologie di contratti di lavoro…”