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giovedì 29 febbraio 2024

Deus ex machina. (Ovvero: ci vuole uno che cali dall'alto e detti la soluzione della questione israeliana)

 La lettera del 28 febbraio di Enrico Fink al comune di Firenze e alle sue rappresentanze istituzionali dopo il convegno di sabato 24 contiene molte importanti riflessioni che ad una prima lettura mi creano perplessità, quasi fastidio, ma poi la stima che ho della persona, ma anche il rispetto per la comunità che rappresenta mi inducono a riflettere. Ho ascoltato in varie forme e diverse occasioni parole di insofferenza verso lo stato d'Israele che arrivano fino al desiderio di ridurne, delimitarne la presenza e l'autorità per lasciar spazio ai palestinesi. Ci sono delle intollerabili ingiustizie, illegittimità che dal 1948, o almeno dal 1967 non sono state sanate e su cui si aggiungono soprusi, sottrazioni, radicalizzazioni del conflitto estreme e non risarcibili. 

Il drammatico rincorrersi della condizione di vittime e carnefici nell'arco di quasi un secolo non è estraneo alle affermazioni sotto accusa e alla reazione infastidita, o almeno allarmata, che creano. Da osservatore fortunato, per nulla coinvolto né nel dramma palestinese, fatto di sangue e rinnovata incertezza per la propria sorte, né in quello ebreo, fatto di dolorosa costrizione a interrogarsi di nuovo sulla propria condizione di esuli indesiderati e accusati, mi chiedo se ci sia possibilità di dialogo. Forse non posso chiedere a chi è invece coinvolto, ingiustamente accusato da una parte o dall'altra, di comprendere l'avversario, o l'accusatore, le ferite recenti e vive come quelle remote e rinnovate da terribili accuse fatte senza distinguere stato da popolo e fede da guerra premono troppo e impediscono di dialogare, troppe sono le premesse e le ammissioni chieste all'interlocutore e avversario. Ma come posso pretendere che oggi un palestinese che ha visto uccidere bambini, donne e compagni abbia parole misurate, di pace e comprensione? E come posso pensare che sia pacato e comprensivo un ebreo che vede mettere in discussione non gli atti del governo Netanyahu, ma l'esistenza di quella terra che ha dato rifugio a un popolo scacciato dalla follia nazista che è stata di larga parte d'Europa? Bisogna farsi guidare da altri sentimenti, riconoscere qualche autorità superiore, estranea al conflitto, che possa mediare. Dobbiamo sì ascoltare le parti in conflitto, chiedere l'interruzione immediata dell'aggressione militare che è indubbiamente unidirezionale, ma l'urgenza non è nel dar ragione ai palestinesi o agli israeliani, l'urgenza è uscire dalla logica della vendetta immediata espressa dalle vittime di un conflitto che dura da oltre cinquant'anni e delegare a un'autorità superiore l'individuazione di soluzioni che consentano di disegnare un futuro sostenibile, ipotizzabile, per quei popoli e quelle terre. Se qualche giorno di tregua sarà assicurato dal piano di rilascio dei prigionieri in mano ad Hamas bisognerebbe che fosse utilizzato per questo, per delegare, spostare in altre mani il potere di risolvere il conflitto. La reputazione di Israele - e ovviamente quella spero più solida degli ebrei - secondo me dipende da questa capacità di delega, di arretramento, così come da questo dipende la sopravvivenza come nazione, e non come sparse vittime di un massacro, dei palestinesi. Spero che ci si provi.