Le note vicende che hanno preparato le attuali pretese delle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono partite dalle Leggi 15 e 16 del 2014 della Regione Veneto, con cui si indicevano referendum propositivi su altrettante proposte di legge nazionale che la Corte costituzionale, con sentenza n. 118/2015, respinse in buona parte per diretto contrasto con la Costituzione; ma anche il solo referendum ammesso e poi tenutosi nel 2017, assieme a uno analogo nella Regione Lombardia, hanno forti implicazioni costituzionali e avrebbero dovuto essere dichiarati inammissibili, nel solco dei precedenti della Consulta, fra cui le sentenze 365/2007 e 470/1992.
Dopo la prevedibile vittoria dei Sì ai due referendum lombardo-veneti scatta l'allarme: il 29 novembre 2017 Giuseppe Pisauro, sentito in Parlamento per l'Ufficio parlamentare di bilancio sui progetti di regionalismo differenziato, afferma che il trasferimento di competenze ed il trattenimento dell'80% dei tributi raccolti in Regione sono insostenibili per la finanza pubblica. Infatti non è replicabile l'oneroso modello delle Regioni a statuto speciale, ed i propositi di Veneto e Lombardia sono anche più radicali e di rottura dell'unità della Repubblica. Eppure le intese con le tre Regioni saranno poi approvate dal Governo Gentiloni il 28.2.2018, a camere sciolte ed a pochi giorni dal loro rinnovo e, quindi, con i poteri dell'esecutivo ridotti alla sola "ordinaria amministrazione" che non si può ritenere comprenda anche il potere di sottoscrivere intese, sia pure preliminari, di questa portata.
Si è dato così l'avvio a un procedimento che potrebbe portare all'approvazione di intese Stato-Regioni che attuerebbero l'art. 116, co. 3o Cost., dando corpo al sogno della Lega di mantenere sul "territorio (del Nord) il cosiddetto "residuo fiscale”. Dietro questo pseudo-istituto leghista si nasconde la rottura dell'uguaglianza delle cittadine e dei cittadini, del principio di solidarietà redistributiva e di equità che sta alla base dell'imposizione tributaria disegnata dall'art. 53 Cost.; vi si vuol sostituire la redistribuzione entro lo stesso territorio della quasi totalità del prelievo fiscale. Un proposito inaccettabile in uno stato unitario, seppur decentrato, perché le imposte gravano sugli individui in base alla loro capacità contributiva e sono informate al criterio della progressività (sia pur distorto da evasione e prevalere delle imposte indirette, ecc.); se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo stato in aree reddituali e si realizza una secessione iniqua, su criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi e a Costituzione formalmente invariata.
Il testo delle intese dettagliate che sono già state raggiunte è stato pubblicato sul web da roars.it, ma il Governo ne ha smentito la fondatezza. Nelle intese generali —piene di furbe omissioni— sinora approvate dalle parti, comunque, l'art. 4 prevede una riserva per ciascuna Regione di tributi erariali maturati sul territorio, seppur senza indicare la proporzione; il Veneto (nel ddl bocciato dalla Corte costituzionale) chiedeva l'80% (in un altro ddl si parla del 90%): nessuno stato, nemmeno federale, può reggere con un grado simile di sottrazione di risorse. Inoltre, una solo parziale attuazione del Titolo V della nostra Carta fondamentale ci consegna anche una generale indeterminatezza dei costi e fabbisogni da un lato, e dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) dall'altro —indicatore, questo, peraltro riferibile all'art. 117, lett. m Cost., da criticare perché consente la differenziazione delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali fra Regione e Regione, anche se ora appare come un argine alla derogabilità verso il basso. Si è peraltro già previsto che le risorse saranno fissate da una "commissione paritetica" formata da rappresentanti del Governo centrale e delle Regioni, con completo esautoramento del Parlamento su un tema essenziale: difficile pensare che un governo a traino leghista possa contenere le spinte egoiste delle Regioni.
L'iter che abbiamo dinanzi, come confermato di recente dalla ministra per la Coesione sociale ed il Mezzogiorno Barbara Lezzi, è questo: il Parlamento voterà una pre-intesa con contenuti e indirizzi generali, su tale base il Governo contratterà l'intesa in termini più dettagliati con le Regioni, quindi la sottoporrà al Parlamento il quale potrà solo approvare o respingere, non emendare il testo (tale vincolo discende dalla necessità dell'intesa prevista dall'art. 116, co. 3o Cost.: ma è contestabile un azzeramento di ogni prerogativa dello Stato); il voto dovrà avvenire a maggioranza assoluta. Le disposizioni di dettaglio sarebbero quindi fuori dalla discussione ed approvazione parlamentare, e nemmeno adottate con decreti legislativi su delega parlamentare, ma con meri Dpcm, norme secondarie, regolamenti, sottratti così anche al vaglio della Corte costituzionale. Le intese varranno per 10 anni, solo dopo potranno esser modificate secondo lo stesso iter, motivo per cui alcuni ritengono che sia ammissibile solo l'iniziativa regionale, non parlamentare o governativa (iniziativa quindi approvata dalla maggioranza di un Consiglio regionale): si tratta di una sostanziale immodificabilità.
Tale attuazione in senso autonomista dell'art. 116, co. 3o Cost. avrebbe effetti su tutto il Titolo V, in quanto nelle intese si prevede la trasformazione di buona parte delle competenze concorrenti (art. 117, co. 3o) in competenze esclusive delle Regioni contraenti; e la sottrazione allo Stato anche delle tre materie sue esclusive previste dal 2o comma dell'art. 117. Ma l'effetto non è solo di diritto amministrativo, di competenze: incide direttamente sulla "costituzione economica", ossia sul prelievo fiscale, sul principio di uguaglianza, su quello di solidarietà e sui diritti sociali.
E non è nemmeno solo una questione di compatibilità finanziaria e di sottrazione di risorse, bensì di vero e proprio attacco all'unità morale e culturale del Paese, atteso che spezzare l'unità sul tema fiscale, su tutte le norme che riguardano l'istruzione (nonostante gli accordi raggiunti fra sindacati e Governo di cui non si può che dubitare, per il parallelo e incompatibile accordo con le Regioni) e sugli altri diritti sociali, per tacere delle altre materie che sarebbero trasferite, vuol dire dissestare buona parte dell'impianto costituzionale; per di più, tramite una legge ordinaria.
Con la seconda "leggerezza" in tema da parte del centrosinistra, dopo la modifica del Titolo V nel 2001, si è messo nelle mani della Lega questo potente strumento eversivo. In parlamento le intese potrebbero trovare l'opposizione del Movimento 5 stelle, ma l'appoggio di Forza Italia e Fratelli d'Italia; non sappiamo come si comporterà il Partito democratico. Il rischio di approvazione è concreto ed è urgente informare al meglio —e responsabilizzare— anche i Consigli regionali e i parlamentari.
Per analisi più approfondite rinviamo alle fondamentali e perspicaci analisi di Massimo Villone, sul web e sui quotidiani "Il Manifesto" e "La Repubblica" in particolare al libro "in divenire" Italia, divisa e diseguale, Editoriale scientifica, 2019 (scaricabile gratuitamente da www.editorialescientifica.com) e a Marco Esposito, Zero al Sud, Rubbettino, 2018; con attenzione soprattutto ai profili economici, rimandiamo a Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, Laterza, 2019 (scaricabile gratuitamente da www.laterza.it) e al suo più aggiornato articolo online su roars.it: https://www.roars.it/online/la-bufala-pro-regionalismo-la-spesa-media-al-nord-e-mediamente-piu-bassa-e-i-livelli-di-servizio-migliori/.
20 maggio 2019
ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI
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