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giovedì 30 maggio 2013

Dovrei essere vegetariano

Mangiare, a primavera nel Monferrato, cruda della carne macinata, poi insaccati, poi tornare alla carne cruda, per quanto si annaffi tutto con del buon vino rosso - Barbera, Bolgheri, Etna, Nebbiolo - e si parli con altri compagni di crudeltà che il vino apprezzano e l'abbinamento con quelle carni, non può non farti venire in mente il cannibalismo, attraverso l'immedesimazione nel corpo una volta vitale, seppur imprigionato, che quella carne uccisa, dissanguata e macellata e trasportata e conservata e preparata, magari cotta o salata o marinata, una volta portava addosso per procurarsi movimenti stanchi in luoghi angusti di prigione. Perché cannibale non può dirsi solo chi si cibi - per diletto o per necessità - di carni sottratte a individui della sua stessa specie, non solo perché tale ristretta definizione è frutto di una scelta culturale che ha delle ragioni, ma non è universalmente accettata nemmeno all'interno della nostra stessa specie, ma anche perché fra esseri sostanzialmente uguali ed esseri simili c'è una differenza che consideriamo di genere a ragione se si tratta di conversare, ma forse se si tratta di soffrire, di salvarsi o di soccombere, c'è una differenza solo di grado che può far preferire l'uguale al simile in caso di scelte estreme (chi salvare con l'ultimo posto sulla scialuppa del naufragio, l'umano sconosciuto o l'animale domestico?), ma non dovrebbe suggerire la soppressione del simile se non vi è alcuna necessità.
Non posso evitare il pensiero dei pochi bovi che ho fissato negli occhi, di come paiano proteggere la scarsità di pensieri col battito cadenzato e lento delle grandi palpebre, di com'è vero che noi uomini siamo ben più vivaci di pensiero, ma non sempre, non per tutti e non per tutta la vita, soprattutto: nessuna autogiustificazione è capace di cancellare l'idea che quello sguardo animale somigli allo sguardo stanco di mia madre che, già vecchia e colpita da un'ischemia che ancor più ne aveva impoverite le capacità mentali, cerca il mio, ma che nulla sa dire, né con l'espressione del volto, né indicando qualcosa con la traiettoria della pupilla, né a gesti. Ella ha in questi giorni lo stesso sguardo di un bove mansueto, se le fo una domanda semplice credo che capisca, ma non sa elaborare una risposta, o non la sa profferire, e si limita a chiudere gli occhi per poi riaprirli, qualche secondo dopo, sperando forse di trovare una relazione meno complicata, meno esigente e continuare a succhiare il liquido che le offro da una cannuccia. Quella povertà di vita ci scaraventa forse ad un livello inferiore di dignità e di diritto a vivere? Aver perso la capacità di comprendere, ma non tanto quanto quella di comunicare, vivere quindi con una capacità di percezione ancora completa in relazione ai nostri sensi e agli eventi che interessano il nostro corpo e l'ambiente circostante, ma del tutto insoddisfacente per una vita di relazione, cosa lascia sopravvivere del nostro statuto di cittadini, di titolari del diritto alla vita e a vivere dignitosamente? Tutto, riteniamo, quando definiamo il diritto alla vita e alla salute. Pertanto forse, se non vogliamo stabilire graduatorie fra umani, dovremmo elevare gli animali al rango di nostri simili, non c'è bisogno di assicurare loro prestazioni che non li rallegrano - come il cappottino di burberry o la cuccia riscaldata o l'accesso alle spiagge - basta evitare di sterminarli dopo averli fatti vivere nella più estrema sofferenza: tra il campo di sterminio degli allevamenti intensivi e l'albergo di lusso per cani dobbiamo ancora trovare il giusto grado di comfort per esseri non uguali a noi, ma in cui senza alcuno sforzo possiamo riconoscere qualcosa di noi.
P.S., Asti, 27 maggio 2013

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