Mangiare, a primavera nel Monferrato,
cruda della carne macinata, poi insaccati, poi tornare alla carne
cruda, per quanto si annaffi tutto con del buon vino rosso - Barbera,
Bolgheri, Etna, Nebbiolo - e si parli con altri compagni di crudeltà
che il vino apprezzano e l'abbinamento con quelle carni, non può non
farti venire in mente il cannibalismo, attraverso l'immedesimazione
nel corpo una volta vitale, seppur imprigionato, che quella carne
uccisa, dissanguata e macellata e trasportata e conservata e
preparata, magari cotta o salata o marinata, una volta portava
addosso per procurarsi movimenti stanchi in luoghi angusti di
prigione. Perché cannibale non può dirsi solo chi si cibi - per
diletto o per necessità - di carni sottratte a individui della sua
stessa specie, non solo perché tale ristretta definizione è frutto
di una scelta culturale che ha delle ragioni, ma non è
universalmente accettata nemmeno all'interno della nostra stessa
specie, ma anche perché fra esseri sostanzialmente uguali ed esseri
simili c'è una differenza che consideriamo di genere a ragione se si
tratta di conversare, ma forse se si tratta di soffrire, di salvarsi
o di soccombere, c'è una differenza solo di grado che può far
preferire l'uguale al simile in caso di scelte estreme (chi salvare
con l'ultimo posto sulla scialuppa del naufragio, l'umano sconosciuto
o l'animale domestico?), ma non dovrebbe suggerire la soppressione
del simile se non vi è alcuna necessità.
Non posso evitare il pensiero dei pochi
bovi che ho fissato negli occhi, di come paiano proteggere la
scarsità di pensieri col battito cadenzato e lento delle grandi
palpebre, di com'è vero che noi uomini siamo ben più vivaci di
pensiero, ma non sempre, non per tutti e non per tutta la vita,
soprattutto: nessuna autogiustificazione è capace di cancellare
l'idea che quello sguardo animale somigli allo sguardo stanco di mia
madre che, già vecchia e colpita da un'ischemia che ancor più ne
aveva impoverite le capacità mentali, cerca il mio, ma che nulla sa
dire, né con l'espressione del volto, né indicando qualcosa con la
traiettoria della pupilla, né a gesti. Ella ha in questi giorni lo
stesso sguardo di un bove mansueto, se le fo una domanda semplice
credo che capisca, ma non sa elaborare una risposta, o non la sa
profferire, e si limita a chiudere gli occhi per poi riaprirli,
qualche secondo dopo, sperando forse di trovare una relazione meno
complicata, meno esigente e continuare a succhiare il liquido che le
offro da una cannuccia. Quella povertà di vita ci scaraventa forse
ad un livello inferiore di dignità e di diritto a vivere? Aver perso
la capacità di comprendere, ma non tanto quanto quella di
comunicare, vivere quindi con una capacità di percezione ancora
completa in relazione ai nostri sensi e agli eventi che interessano
il nostro corpo e l'ambiente circostante, ma del tutto
insoddisfacente per una vita di relazione, cosa lascia sopravvivere
del nostro statuto di cittadini, di titolari del diritto alla vita e
a vivere dignitosamente? Tutto, riteniamo, quando definiamo il
diritto alla vita e alla salute. Pertanto forse, se non vogliamo
stabilire graduatorie fra umani, dovremmo elevare gli animali al
rango di nostri simili, non c'è bisogno di assicurare loro
prestazioni che non li rallegrano - come il cappottino di burberry o
la cuccia riscaldata o l'accesso alle spiagge - basta evitare di
sterminarli dopo averli fatti vivere nella più estrema sofferenza:
tra il campo di sterminio degli allevamenti intensivi e l'albergo di
lusso per cani dobbiamo ancora trovare il giusto grado di comfort per
esseri non uguali a noi, ma in cui senza alcuno sforzo possiamo
riconoscere qualcosa di noi.
P.S., Asti, 27 maggio 2013
P.S., Asti, 27 maggio 2013
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