Ho finalmente - il 13 marzo - visto La grande bellezza di Paolo Sorrentino. L'ho trovato imperfetto, ambizioso, ma in fondo coerente e solido, un bel film originale, che mancava, sulla bruttezza della nobiltà
contemporanea dei ricchi e famosi privi di alcuna qualità artistica
o civica. E un film sin troppo consapevole, ma senza intromissioni didascaliche, godibile fino in fondo, spesso davvero comico, che ostenta belle scene e belle inquadrature,
compresi movimenti del carrello eccessivi, non saprei dire se ingenui
o volutamente barocchi, comunque più true life che d'éssai. Ma
potremmo non essere a Roma, la città eterna qui è un'occasione, una
sostanza, non un sentimento. Andrebbe bene qualunque posto del mondo
dove vi sia un quartiere ricco i cui abitanti vogliano esibire uno
status e angustiarsi per il passare del tempo.
Jep - un ibrido tra il Mastroianni di
Otto e mezzo e il Roberto d'Agostino d'oggi - vive nella bruttezza di
quella gente ricca, affamata, cafona, avida, di personaggi che hanno
perso l'umiltà dei mostri felliniani e sono purtroppo appesantiti
dalla protervia delle comparse che hanno avuto il successo della
televisione o di un periodico scandalistico.
I pochi che si distinguono - la
scrittrice di undici romanzi pubblicati solo grazie alla relazione
col capo del “partito”, la madre di un ragazzo disadattato sino
al suicidio, l'autore teatrale perso dietro all'amore impossibile e
infine deluso da Roma e costretto a tornare al suo paese - perché
hanno qualche residuo di dignità, sono in fondo vanitosi e instabili
perché vogliono il successo, vogliono il riconoscimento della
propria eccezionalità e non accettano la propria mediocrità.
Jep sopravvive ai propri amici, anche alla figlia spogliarellista di un amico drogato e gestore di night club, ma sopravvive - o meglio cerca di beffare - anche un senso critico che ha rinunciato ad esercitare. Le sue feste sono di una bruttezza insostenibile e sono tanto curate, tanto false e dissolute perché popolate di persone che non hanno mai conosciuto la grande bellezza che c'è nella semplicità di un mare d'estate, del Tevere all'alba o di un amore inesperto o di una santità non vantata. Jep si aggira, tra quei mostri che innescano trenini su ritmi sudamericani, quale spocchioso ex scrittore di un unico romanzo e ora verosimile caricatura di un Roberto d'Agostino che scrive su rotocalchi di gossip e cultura modaiola, unico, fra quanti si coricano quando il resto della città si sveglia, che una volta ha conosciuto la grande bellezza e non l'ha mai saputa trattenere.
Jep sopravvive ai propri amici, anche alla figlia spogliarellista di un amico drogato e gestore di night club, ma sopravvive - o meglio cerca di beffare - anche un senso critico che ha rinunciato ad esercitare. Le sue feste sono di una bruttezza insostenibile e sono tanto curate, tanto false e dissolute perché popolate di persone che non hanno mai conosciuto la grande bellezza che c'è nella semplicità di un mare d'estate, del Tevere all'alba o di un amore inesperto o di una santità non vantata. Jep si aggira, tra quei mostri che innescano trenini su ritmi sudamericani, quale spocchioso ex scrittore di un unico romanzo e ora verosimile caricatura di un Roberto d'Agostino che scrive su rotocalchi di gossip e cultura modaiola, unico, fra quanti si coricano quando il resto della città si sveglia, che una volta ha conosciuto la grande bellezza e non l'ha mai saputa trattenere.
Non c'è Fellini, non c'è il sogno, ma
solo il risveglio tardivo, non c'è la bellezza accarezzata, ma solo
rimpianta. Ma non c'è neanche la malinconia della Dolce vita, ma solo la
crudeltà di una vita persa.
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